Auguri alle mamme con ‘Tic Tac’ un toccante racconto di attualità

Auguri alle mamme con ‘Tic Tac’ un toccante racconto di attualità

08/05/2025 2 Di Laura Boggero

In occasione della Festa della Mamma, la nostra Laura Boggero ha scritto un breve e commovente racconto ispirato dalla vicenda che ha visto protagonista una scimpanzé del Bioparco di Valencia, Natalia, e il suo amore di mamma che non ha abbandonato il corpicino del suo figlioletto per tre mesi, incapace di accettarne la morte

Con queste parole piene d’amore, la Redazione fa gli auguri a tutte le mamme

Tic Tac

Da una storia vera che ha commosso il web, un racconto che insegna a contare il tempo con il cuore

Ave­te avu­to una mam­ma appic­ci­co­sa? Di quel­le che ti chia­ma­no “amo­re mio” davan­ti ai tuoi ami­ci, ti met­to­no la canot­tie­ra anche sot­to il costu­me da bagno e ti sve­glia­no la not­te per sape­re se dor­mi bene? Ecco, allo­ra sape­te di cosa par­lo. Nata­lia era esat­ta­men­te quel tipo di madre.
Solo un po’ più pelo­sa. Non lascia­va mai il suo cuc­cio­lo. Mai. Nean­che per grat­tar­si la schie­na. Lo tene­va sem­pre con sé, stret­to, ran­nic­chia­to, inca­stra­to sul suo cuo­re come un pen­sie­ro fis­so. Gli altri scim­pan­zé la pren­de­va­no in giro, ma a lei non fre­ga­va un… maz­zo. Di bana­ne. Del resto non si diven­ta madri con un libret­to d’istruzioni.

Gli por­ta­va una bana­na matu­ra, ogni mat­ti­na, la sbuc­cia­va per lui, con cura da chef e glie­la mostra­va con un sor­ri­so che gli dice­va: “Sei anco­ra trop­po pic­co­lo per man­giar­la, ma devi ini­zia­re a sognar­la”. L’amore ha il suo rito: offri­re qual­co­sa che sai non ver­rà pre­so, ma ver­rà ricordato.

Gli par­la­va, gli rac­con­ta­va sto­rie. Come quel­la del pri­mo scim­pan­zé che osò guar­da­re negli occhi un leo­ne. E il leo­ne, col­pi­to da tan­to corag­gio, lo man­giò con più rispetto.

Gli inse­gna­va a sta­re alla lar­ga dal turi­sta. Quel­lo che ti dice “cari­no”, con voce zuc­che­ro­sa, e poi ti schiaffa un cap­pel­li­no in testa, per far­si un sel­fie da blog­ger ani­ma­li­sta illu­mi­na­to. Tag­gan­do­ti con #good­vi­bes.

Gli ave­va dato un nome segre­to. Uno solo per loro due. Un nome che non avreb­be mai det­to agli altri. Lo pro­nun­cia­va sot­to­vo­ce, men­tre lo don­do­la­va, con un gesto che era metà nin­na­nan­na, metà resistenza.

I mesi pas­sa­va­no. Nata­lia si era fat­ta più taci­tur­na, più atten­ta. I suoi occhi sem­bra­va­no trat­te­ne­re qual­co­sa, un’idea o for­se un tempo. 
Un gior­no, men­tre era sedu­ta su una roc­cia piat­ta al sole, una gio­va­ne scim­pan­zé le si avvi­ci­nò e accen­nò: “Nata­lia, ma non ti sem­bra che…” Lei la zit­tì con uno sguar­do, uno di quel­li che non si lan­cia­no, si pian­ta­no. Poi tor­nò a cul­la­re il suo pic­co­lo, con un movi­men­to len­to e per­fet­to, come un metro­no­mo del cuore.

La veri­tà era sem­pli­ce, ma nes­su­no osa­va dirla.

Il pic­co­lo di Nata­lia era nato una mat­ti­na d’inverno. Era vis­su­to un gior­no e qual­che ora. Ma Nata­lia l’aveva tenu­to con sé per set­te mesi. Non per­ché non sapes­se, ma per­ché sape­va trop­po bene. Sape­va che anche un gior­no, se amato
fino in fon­do, vale più di una vita inte­ra vis­su­ta a metà. Sape­va che ciò che con­ta, non si lascia anda­re con fret­ta: non si archi­via, resta sot­to la pel­le. E sape­va che cer­ti addii non fan­no rumore.
Si ten­go­no tra le brac­cia fin­ché non pesa­no più.

Fu per que­sto che, quan­do le altre madri tor­na­ro­no a gio­ca­re, a cer­ca­re nuo­vi amo­ri e nuo­vi rami da mor­de­re, lei resto lì. Con il pic­co­lo nel suo abbrac­cio. Con la memo­ria nel gesto. Con la vita pie­na, anche se breve.
Gli eto­lo­gi ini­zia­ro­no a stu­dia­re il caso. Par­la­va­no di com­por­ta­men­to ano­ma­lo, di attac­ca­men­to osses­si­vo dell’animale in cat­ti­vi­tà. Nata­lia, intan­to, con­ti­nua­va a fare quel­lo che nes­su­no sape­va misu­ra­re: stare. 
Al Bio­parc nes­su­no inter­ven­ne. I respon­sa­bi­li osser­va­ro­no in silen­zio, con quel tipo di disa­gio che si pro­va davan­ti a qual­co­sa che non si può spie­ga­re. Avreb­be­ro potu­to rimuo­ve­re il cor­po, inter­rom­pe­re il lut­to. Ma non lo fece­ro. Nes­su­no vole­va pren­der­se­ne la respon­sa­bi­li­tà. Lascia­ro­no che l’amore aves­se il suo spa­zio. Che la mor­te aves­se il suo posto. E che una madre aves­se il suo tem­po. For­se più per vil­tà che per generosità.

Lei lo chia­ma­va Tic Tac.
Non per affet­to. Per esattezza.
Per­ché ogni secon­do con lui ave­va avu­to un peso
Lo sus­sur­ra­va pia­no come un man­tra. Tic Tac. Il suo­no del tem­po che ave­va­no sot­trat­to all’orologio degli altri.
Lo strin­ge­va con­tro di sé, con quel nome che bat­te­va rego­la­re. Tic Tac.
Un rit­mo quie­to che non era solo abitudine.
Era un gesto che tene­va testa al silen­zio. Un modo per dire: non adesso.
Tic Tac.
Per­ché l’amore, quan­do è vero, non si allun­ga, si con­cen­tra. Non ha biso­gno di durare.

Ha biso­gno di accadere.

Lau­ra Boggero