Grande successo per ‘Ritratto Invisibile’, documentario su Panseca

Grande successo per ‘Ritratto Invisibile’, documentario su Panseca

24/04/2025 0 Di Francesca Marrucci

Sala piena e grande approvazione per il documentario ‘Ritratto Invisibile’ di Laura Boggero. Filippo Panseca come lo conoscevamo, come non lo avevamo ancora visto, come ci ha abituati a ricordarlo

Commozione e applausi anche per il monologo recitato da Cristina Barbagallo che vi proponiamo nel nostro servizio

GUARDA IL VIDEO E IL MONOLOGOLEGGI IL TESTO DEL MONOLOGO

di Fran­ce­sca Marrucci

Sala pie­na e gran­de entu­sia­smo e com­mo­zio­ne han­no accom­pa­gna­to la pro­ie­zio­ne del docu­men­ta­rio di Lau­ra Bog­ge­roRitrat­to Invi­si­bi­le’ dedi­ca­to a Filip­po Pan­se­ca. Lau­ra ci ha rac­con­ta­to in una inter­vi­sta esclu­si­va quan­to è sta­to arduo, in poco tem­po, mon­ta­re que­sto pic­co­lo gio­iel­lo che ha riscos­so appro­va­zio­ne una­ni­me e applau­si, ripor­tan­do alla men­te, a quan­ti lo cono­sce­va­no per­so­nal­men­te, Filip­po Pan­se­ca pro­prio com’e­ra, come arti­sta e come uomo.

Applau­si e com­mo­zio­ne han­no accom­pa­gna­to anche il mono­lo­go, sem­pre scrit­to dal­la Bog­ge­ro, che l’at­tri­ce Cri­sti­na Bar­ba­gal­lo ha por­ta­to sul pal­co come intro­du­zio­ne al docu­men­ta­rio che, non a caso, por­ta­va lo stes­so titolo.

Il testo del­lo stes­so lo tro­va­te dopo il video. Un rega­lo di cui rin­gra­zia­mo la nostra Lau­ra e che sia­mo orgo­glio­si di pubblicare.

Per i nostri lettori, ecco l’intero monologo nel servizio sull’evento.

IL TESTO DEL MONOLOGO DI LAURA BOGGERO:

RITRATTO INVISIBILE
RENATA

Sor­ri­de­te, ciiis… sie­te bel­lis­si­mi! (Scat­ta una Pola­roid al pubblico)

Ecco, un’altra istan­ta­nea da aggiun­ge­re alla mia col­le­zio­ne di vol­ti invisibili—o quasi.

Ho ini­zia­to così: rac­co­glien­do pez­zi di vita in que­ste pagi­ne con que­sta vec­chia pola­roid. Ogni foto, un momen­to che teme­vo potes­se sva­ni­re. For­se per­ché la pri­ma scom­par­sa che ricor­do non l’ho mai potu­ta fotografare.Questa è la nume­ro uno. L’ho scat­ta­ta la mat­ti­na in cui mio padre è usci­to di casa con la vali­gia mez­za aper­ta. Mi ha det­to solo “Non ave­re pau­ra.” E poi è spa­ri­to. Ricor­do la luce del cor­ri­do­io che pro­iet­ta­va la sua ombra sul muro, come una sago­ma pron­ta a sva­ni­re appe­na gira­to l’angolo. Sono riu­sci­ta a foto­gra­fa­re solo quel­la. E nel­la mia testa di bam­bi­na, boh avrò avu­to for­se die­ci anni, non era par­ti­to dav­ve­ro: era diven­ta­to invisibile.

Que­sta l’ho fat­ta qual­che anno dopo. Mi sono ritro­va­ta in un cam­po spor­ti­vo: c’era un ragaz­zo che si muo­ve­va da solo su un pra­to, pro­va­va dei gesti, for­se per il lan­cio del disco o qual­co­sa di simi­le, sem­bra­va bal­las­se. Ho scel­to con cura lo scat­to. Clic. Pen­sa­vo di aver cat­tu­ra­to qual­co­sa di vera­men­te poe­ti­co. Una sto­ria. Un’anima. Ma quan­do l’immagine è appar­sa, c’era solo erba e cie­lo. Nien­te dan­za­to­re, era usci­to dall’inquadratura, Come se si fos­se rifiu­ta­to di esi­ste­re nel mio scat­to. E’ sta­to lì che ho capi­to che non basta un clic per sve­la­re una pre­sen­za. A vol­te è l’assenza a par­lar­ci più di qua­lun­que immagine.

E così cre­scen­do, ho ini­zia­to a cer­ca­re pro­prio l’assenza. In ogni foto­gra­fia, in ogni fil­ma­to vole­vo coglie­re i det­ta­gli che sfug­go­no: la mano che sci­vo­la via dall’obiettivo, la pau­sa tra una paro­la e l’altra, il bat­ti­to del­le ciglia pri­ma di un pian­to nasco­sto. Ave­vo l’ossessione di sco­pri­re ciò che la gen­te non vole­va mostra­re. For­se sta­vo solo pro­van­do a dare un vol­to a mio padre che non c’era più, non lo so.

C’è una foto che ha lascia­to un segno pre­ci­so, non sul­la pel­li­co­la, ma in me. Ero appe­na usci­ta da una gior­na­ta che mi ave­va mes­so addos­so una stan­chez­za stra­na. Cam­mi­na­vo sen­za meta, con la Pola­roid al col­lo, e lì, tra un dam­mu­so rot­to e una mac­chia di finoc­chiet­to sel­va­ti­co, è arri­va­to l’arcobaleno.
Era per­fet­to. Trop­po. Mi ha pre­so una spe­cie di ansia: sape­vo che sta­va già sva­nen­do. Così ho alza­to la mac­chi­na, ho scat­ta­to qua­si di rifles­so. Click.

Ecco­lo. O meglio… quel­lo che ne resta. I colo­ri sono impa­sta­ti, la luce è scap­pa­ta ai bor­di. Non somi­glia nem­me­no lon­ta­na­men­te alla visio­ne che ave­vo davan­ti. Ma è tut­to quel­lo che ho.
Per un po’ sono anda­ta in fis­sa con que­sto tipo di scat­ti: cer­ca­vo la bel­lez­za quan­do era già sul pun­to di spa­ri­re. Come se potes­si fer­mar­la. Come se bastas­se un’immagine per sal­var­la dall’oblio.

Ma un arco­ba­le­no non vuo­le esse­re tenu­to. Come cer­te per­so­ne. Come cer­ti momen­ti. Appa­io­no, ti toc­ca­no, e poi spa­ri­sco­no. E non impor­ta quan­te foto fai: non tor­ne­ran­no più identici.
Io, inve­ce, con­ti­nua­vo a inse­guir­li. Per­ché non riu­sci­vo a sop­por­ta­re che qual­co­sa di così bel­lo potes­se sem­pli­ce­men­te… finire.

Una vol­ta, in una caser­ma museo, ho inqua­dra­to una cor­ni­ce vuo­ta e l’ho foto­gra­fa­ta. Sape­te cosa vuol dire sen­tir­si di fron­te a un’immagine che non esi­ste anco­ra? È come tro­var­si in bili­co: da un lato la pau­ra che non ci sia nien­te, dall’altro la spe­ran­za che qual­co­sa pos­sa appa­ri­re. Non è appar­so nul­la, ma la cosa più assur­da è sta­ta la pace che ho pro­va­to. Ho sco­per­to che a vol­te non ser­ve vede­re tut­to: cer­te pre­sen­ze ci accom­pa­gna­no comunque.

E voi, l’avete mai pro­va­to? Ave­te mai desi­de­ra­to abbrac­cia­re qual­cu­no che non pote­te toc­ca­re? Sen­ti­re una voce che non pote­te regi­stra­re? Fa pau­ra, lo so. Ma pos­sia­mo vin­cer­la. For­se l’invisibilità è il dono più gran­de che pos­sia­mo fare a chi amia­mo. Per­met­ter­gli di veder­ci, sen­za l’illusione di pos­se­der­ci. Non sia­mo tut­ti pron­ti. Richie­de fidu­cia, richie­de l’idea che il lega­me non dipen­da da un nome, un vol­to o una fir­ma su un quadro.

For­se papà non mi ha mai lascia­to. For­se quel ragaz­zo che bal­la­va sul pra­to non si è mai fer­ma­to davan­ti alla mia tele­ca­me­ra. E for­se in quel­la cor­ni­ce c’era solo aria e scin­til­le. Ma se chiu­do gli occhi, non ho più biso­gno di inse­guir­li. Ave­te mai pos­se­du­to un arcobaleno?

Oggi, se mi chie­de­te chi sono, non ho pau­ra di rispon­de­re: “Sono Rena­ta e sto anco­ra scat­tan­do polaroid”.

Ecco la vostra foto, ragaz­zi. Nel tem­po di uno scat­to anche voi sie­te già diven­ta­ti memoria.